La Roma di Evangelisti e di Oronzo Pugliese

Va via De Sisti arriva Capello

Presidente e allenatore carichi di ottimismo. Meno allegri i tifosi, che a malincuore vedono partire Picchio. Arriveranno altri uomini a esaltare. Come Cordova, Jair, Taccola. E Fabio Capello

Gli uscieri del Corriere dello Sport, non sapevano più dove depositare i registri zeppi di firme. Nome e cognome, indirizzo e qualche «mortacci vostri» destinato a presunti traditori della patria giallorossa. Dov'era il tradimento? Nella annunciata cessione di Picchio De Sisti, il leader cresciuto in famiglia, il ragazzo preciso in campo e fuori, tutto casa e chiesa, che aveva ampiamente dimostrato di sapere prendere il comando di una squadra sbilenca e difficile come la Roma. Il Corriere dello Sport aveva allora pacificamente mobilitato la piazza, attraverso una raccolta di firme. Furono decine di migliaia. De Sisti era uno di borgata, aveva frequentato i campi del Quadraro, che gli avevano rapidamente rivelato tutte le malizie del mestiere. Il resto lo aveva fatto l'innata sapienza calcistica; il suo punto forte era la capacità di garantire, in qualsiasi situazione, un razionale assetto di gioco. Intorno a lui regnava solo l'ordine. Ma non c'era via di scampo: o una toppa al bilancio o il fallimento. Picchio partì, destinazione Firenze dove, insieme ad un altro ragazzo di Torpignattara, Claudio Merlo, avrebbe vinto lo scudetto. E insieme a De Sisti, se ne andarono l'Angelillo squassato da mille pene e da tante incomprensioni, lo Schnellinger slabbrato dalla fatica, il Nicolè appesantito dai suoi giovani ma grevi anni. Più altri. Una smobilitazione che svuotando la squadra impedìche si svuotassero le casse. Intanto l'on. Evangelisti aveva portato a compimento il suo disegno e aveva assunto la presidenza della sezione calcio dell' A.S.Roma. Il conte Marini Dettina era diventato presidente generale. Diamo, a questo punto, un'occhiata al nuovo Consiglio Direttivo: troviamo i nomi di Franco Ranucci e Alvaro Marchini: vi dicono niente? Con Franco Evangelisti e Oronzo Pugliese, tutto poteva mancare alla Roma meno che uno spontaneo entusiasmo. Anche davanti a un plotone di esecuzione, l'on. Evangelisti avrebbe detto: «Tutto a posto, no?». Figuriamoci se i nostri due eroi potevano essere turbati dai problemi di una Roma rattoppata con gli ingaggi di Benitez e Barisono Ma poi, fu davvero un errore, da parte di Pugliese, accettare il comando di una squadra in evidenti difficoltà, o fu invece un atto di coraggio, il solenne impegno di un professionista non abituato a scappare, a nascondersi, disposto ad assumersi tutte le responsabilità necessarie? Non fu una sfida da brivido, il momento irripetibile di un'onesta carriera? Quanto ad Evangelisti, per lui il gioco era appena cominciato e chissà quanto sarebbe durato. Era un uomo politico di accertata lungimiranza.

Arrivano i nostri

Quella carovana marciò con ruote sbilenche su strade sassose, ma riuscì ad andare avanti, tra sobbalzi da rompere le ossa. Perchè le contestazioni arrivarono subito, in precampionato, e durarono per tutto il torneo, con brevi soste per riprendere fiato. Pugliese tentò di reagire ma capì che non era il caso, Evangelisti era l'amico di tutti, una valanga inarrestabile di ottimismo: un compagno di giochi. Finì con un ottavo posto che non era da disprezzare, e intanto era arrivato anche, in Consiglio, Gaetano Anzalone. I derby con la Lazio, di quei tempi, com'erano? Rispecchiavano la qualità della vita, che era modesta. Pugliese ne giocò quattro, uno ne perse per 10 e un altro ne vinse con lo stesso punteggio, mentre le altre due sfide terminarono con uno 0-0 che avrebbe resistito anche al diluvio universale. Pochi gol, poco gioco, poco entusiasmo di folla. Poi la Lazio, che era più a mal partito della Roma, pensò bene di salutare la compagnia per dare un'occhiata alla serie B. Tutto questo per dire che non era il caso di lamentarsi, che il convento questo passava e di più non si poteva pretendere. Erano tempi da medioevo, nella tradizione romanista: e riconosciamo ad Evangelisti almeno il merito di aver evitato la bancarotta. E' difficile crederlo, adesso, ma chiedetelo a quelli che erano al Sistina, quella mattina della colletta. I primi cauti passi di Evangelisti sulla via della ripresa, furono gli ingaggi del tenace Nevio Scala (ma in prestito) e dell'eccentrico (come tipo di gioco) spagnolo Peirò, uno che sapeva suscitare immediati entusiasmi, quindi uno che ci voleva proprio. Ma che serve, se non a provocare rimpianti, una sera breve e intensa e felice, davanti a una notte lunga solitaria e triste? Qualche bel risultato, qualche prodezza di Peirò, provocarono solo brucianti illusioni. La Roma era contraddittoria, episodica, piena di squilibri. Pugliese tentò invano di raddrizzare la rotta, la sua sbilenca squadra finì decima. Evangelisti capì che non era il caso di insistere, nello sfruculiare la pazienza dei romani(sti).

La valanga nerazzurra

Fu così che i nostri due ambasciatori dell' ottimismo una volta tanto preoccupati, decisero di avventurarsi nella grande impresa, di tentare il tutto per tutto. E all'inizio del loro fatal triennio, Evangelisti e Pugliese organizzarono una Roma diversa, con arrivi di una certa sostanza. Presero a frequentare la sede giallorossavolti che poi ci sarebbero rimasti familiari. Per esempio quello di Fabio Capello, classica mezzala prelevata dalla Spali quello di Jair, il funambolico colored che aveva spopolato nell'Interi di Ciccio Cordova, che tanto romanista sarebbe diventato da sposare la figlia del presidente, Simona Marchini; di Giuliano Taccola, un promettente centravanti che invece sarebbe andato incontro ad un tragico destino.
Immaginate una Roma imbattuta dopo ottogiornate e prima in classifica. La grande impresa dunque si stava realizzando, il laborioso disegno elaborato da Evangelisti e Pugliese stava dando vita ad un autentico capolavoro. Il resto, tutto il resto di quel campionato, è contenuto nelle cronache di un demoniaco Roma-Inter, disputato il 21 gennaio 1968. Fu un 6/2 per i nerazzurri che squassò l'Olimpico. C'è stupore, c'è quasi sgomento, in quelle cronache; ci sono le tracce di un sogno perduto. Mazzola e Corso fecero sfracelli, con due gol ciascuno. E si compì un destino, perchè la Roma giallorossa decise che il futuro romanista poteva essere affidato solo a Helenio Herrera.

Tratto da La mia Roma del Corriere dello Sport

 

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